Un’estate fa a quest’ora era domenica.

Un 12 giugno caldissimo, come d’altra parte lo è quello che sto vivendo e che sta per concludersi.

Una fila chilometrica per entrare al Forum d’Assago all’aperto. Entrare all’aperto: sembra un ossimoro, ma non lo è. Il forum ha una parte all’aperto, che d’estate usano per i concerti. E io il 12 giugno ero al terzo concerto di fila consumato nel giro di una manciata di giorni. Il primo a Verona, l’8, il secondo a Firenze (al Visarno) il 10, e poi la data di Milano, per giocare in casa. 3 concerti. Che fossero dei Duran Duran, ca va sans dire.

Spesso raccontando che nei limiti del fattibile (e dello sborsabile), quando i Duran vengono in Italia cerco di esserci a quante più date possibile, la gente mi guarda stralunata, come se fossi una pazza: Come?!?! Tre concerti tutti uguali?

Non lo concepiscono, perché pensano che ogni data sia uguale a sé stessa. Stesse canzoni, stessa scaletta, spesso anche stessa gente… Ma non ti rompi?

Non mi rompo? E no che non mi rompo, io no che non mi rompo, no che non mi rompo, non che non mi rompo!, come canterebbe Jovanotti. E manco mi annoio, sempre per dirla come lui.

Perché non è vero che ogni data è uguale alla precedente e a quella che verrà.

Certo, i brani sono gli stessi (e spesso anche da un tour all’altro le scalette un po’ si assomigliano, a dispetto di una discografia davvero vasta, che sarebbe così interessante rispolverare un attimo di più, ogni tanto), ma è l’emozione che conta. E ogni volta è diversa.

Lo scorso tour, per esempio, per me è stato un susseguirsi di sensazioni contrastanti.

Comincio con il dire che la data del 10 giugno, al Visarno, è quella che meno ho apprezzato. Eravamo stanche e in più avevamo fatto l’errore madornale di prendere i posti in tribuna. Mi è capitato altre volte di vedere i DD in tribuna, ma quella volta lì proprio non mi è piaciuta. Ho trovato tutto dispersivo, distante. Mi sono sentita spettatrice di qualcosa a cui davvero non stavo partecipando. Non per colpa della musica, ma proprio della location, a mio parere.

Ho sofferto, quella sera. Non mi sentivo dentro la parte. Era come vedere il concerto su YouTube. Tutto è cambiato quando la mia amica Dipi ha scoperto che si riusciva a scendere nel prato, in qualche modo. Il prato è stata la svolta della serata. La chiave per sentirsi parte di una tribù che balla ed è lì tutta per lo stesso obiettivo, la stessa passione.

In ogni caso, nulla di paragonabile, anche dopo la svolta, alle emozioni incredibili che avevo provato due giorni prima, a Verona (il concerto più bello della mia vita, so far, soprattutto a livello emotivo) e l’energia pazzesca che avrei sentito rimbombare nella cassa toracica e ogni fibra del mio corpo da lì ad un paio di giorni dopo, a Milano.

L’8 giugno a Verona era stata una cosa incredibile. La giornata era cominciata sotto dei nuvoloni pazzeschi, in treno verso l’Arena, con le compagne di avventura. Poco più di un’ora di viaggio tra rivelazioni, risate, supposizioni e siamo arrivate a destinazione.

Ad attenderci, nubi nere ancora più cariche di acqua e un cielo color piombo. Lo sguardo attaccato al cellulare, per capire le previsioni delle ore successive. Che nulla facevano sperare di buono, anzi. E, maledette, ci hanno azzeccato. Sempre così, quando speri che si sbaglino, ci prendono. Quando speri ci prendano, spesso sbagliano.

E’ venuto giù questo mondo e pure quell’altro. Ma non ci ha fermato. Bardate nelle nostre palandrane da tele tubbies in rosa, con le compagne di avventura ho vissuto una delle sere più pazzesche della nostra vita. O per lo meno, della mia sicuramente.

 

Così vicina al palco da poter arrampicarmici, avrei potuto afferrare i piedi di John Taylor e buttarlo giù.

Non l’ho fatto per decenza e soprattutto per rispetto di chi era lì come me per vivere una notte di note. Ma altrimenti sarebbe stato da fare. Attaccarmi ai piedi lunghi lunghi del “The Bass God” e trascinarlo ai miei, di piedi (che sono un più modesto 38. Mi si sono rimpiccioliti con gli anni. Una volta portavo il 39. Se continua così, tra qualche anno dovrò andare da Gusella)… per fare cosa poi, chi lo sa.

Un’amica ha afferrato qualcosa d’altro, però: il microfono (…) a Simon Le Bon e ha cantato con lui. Credo sia ancora adesso rimbambita dall’emozione.

Di quella sera ricordo tutto e niente. Un turbinio di sensazioni incredibili. Voltarsi a guardare il pubblico dell’Arena e cercare di immaginare anche solo lontanamente cosa prova un artista ogni volta, al cospetto di quella folla umana che è lì solo per te. E non ci riesci, non riesci ad immaginarlo. A me verrebbe il cagotto, l’ho già scritto un’altra volta, loro saranno per forza abituati.

Cantare sotto la pioggia, fregandosene dell’acqua che scende come sotto la doccia, non ha prezzo, se sei sotto il palco, ai piedi – letteralmente –  dei tuoi idoli.

Quando tutto è finito ha lasciato il vuoto, come sempre quando si vivono delle emozioni piene e incredibili. Ma anche tanta, tantissima adrenalina e voglia di ricominciare, insieme alla malinconia. Tutto finisce. Il problema è che le cose belle finiscono sempre troppo in fretta, quelle brutte ci impiegano secoli a terminare. La loro fine arriva, certo, ma ad una lentezza straziante, maledette.

E così quella sera ovvio sia volata in un lampo (date le condizioni meteo, il paragone ci sta tutto). Perché era una cosa non bella, di più. In una cornice non bella, strepitosa. Con un pubblico non caldo, bollente.

E poi è arrivato il 12 giugno. A Milano. A casa. E loro sono stati incredibili, coinvolgenti ancora più del solito, se possibile. In gran forma.

Mi sono ritrovata vicino al palco, ma non come a Verona. In mezzo alla calca, cosa che odio. Ma per loro questo ed altro. Un rito catartico, un rito di massa, corale. Sudore, zanzare, musica, il ritmo che ti pulsa nelle ossa, nella testa, nello stomaco. Simon che sembra un ragazzino, un uomo che è come il vino, invecchia ed è sempre meglio. Anche questo l’ho già ripetuto mille volte.

Quella sera lì, insieme alle compagne di avventura “al completo”, rimarrà impressa per sempre nel mio cuore. Un’energia duraniana mai sentita prima, a dispetto della stanchezza che, poveri diavoli, sentiranno anche loro, dopo giorni e giorni a calcare i palcoscenici di mezzo mondo. Poi in Italia, con tutto il carico di pedinamenti, strattonamenti, rompimenti, ecc ecc. Ma loro inossidabili, fighissimi, grandi, immensi musicisti, che i ben pensanti di sto cavolo hanno spesso schernito, ma che adesso si stanno prendendo tutte le soddisfazioni del caso. Acclamati, apprezzati, imitati. Unici.

E io sono così felice di aver vissuto quello che ho vissuto, un’estate fa. Pronta, ovviamente, a riprendere il percorso là dove si era interrotto. E sarà molto prima di quanto avevo immaginato. E sarà ancora una volta energia pura e vita.

Duranies, here we go again!

Davanti ad Assago. 12 giugno 2016. Nella foto mancano alcune compagne d’avventura 🙁