Come da titolo, io parlo da sola. Lo faccio spesso, spessissimo, sempre.
“Me la canto e me la suono“. È la mia valvola di sfogo.
A volte parlo da sola nella mia testa, ma altrettante lo faccio a voce “alta”, come quando ripetevo le lezioni. Tanto tempo fa.
Ricordo una volta, da adolescente, in macchina con mio papà verso Pescara (mi stava accompagnando a comprare Tutti Frutti, la storica rivista musicale che spopolava a metà anni 80, dove trovare sempre notizie fresche sui Duran Duran), ad un certo punto di punto in bianco ho squarciato il silenzio con un sommesso “Poveracci” .
Papà mi ha guardata strano e mi ha chiesto: “Chi?” e io “Boh“.
In effetti non stavo pensando a nessuno in particolare, era solo “un riflesso condizionato”, forse un segnale di genialità nascosta (molto nascosta).
Ora che sono grande, parlo da sola in ufficio, per darmi la carica, per sfogare le mie frustrazioni su me stessa, evitando di farlo sugli altri. Per elaborare idee complesse. Per preparare una telefonata che procrastino da giorni (sono una “procrastinatrice seriale“).
Parlo da sola a casa. Per decidere cosa preparare per cena; alla mattina inveendo contro la sveglia; alla sera per invitarmi ad andare a letto (per il mio bioritmo, alla sera non andrei mai a dormire, la mattina non mi alzerei mai prima delle 10. Per altro ho letto di recente che anche la scienza mi dà ragione, a riprova di quella genialità incompresa di cui 5 righe fa).
Parlo da sola per la strada. Eh sì, capita anche quello. Ovviamente a bassa voce, facendo chuchotage, da buona ex studentessa di Scuola Interpreti.
Se ho un impegno che mi preoccupa, me lo preparo in testa: progettare lo schema di come andrà esattamente quel dialogo che dovrò affrontare, immaginando ogni singola botta e risposta, mi fa stare più tranquilla.
Parlavo da sola al telefono, anche quando ero ancora “signorina”: quando ancora ognuno viveva a casa propria, come ogni fidanzata che si rispetti ogni sera inforcavo il telefono per raccontare alla mia dolce metà tutto quello che avevo fatto nella giornata. Da cima a fondo, con dovizia di particolari. Più o meno a metà del secondo tempo il silenzio sospetto dall’altra parte della cornetta mi faceva capire che oramai l’attenzione era scemata: stavo parlando da sola più o meno da mezz’ora.
Così scattava il trappolone: ad un certo punto mi arrestavo e pronunciavo un grande classico delle telefonate tra fidanzati:
“Ma mi stai ascoltando?!?”
“(MOMENTO DI PAUSA) Sì, certo che ti sto ascoltando!”
“Mmm… e allora ripetimi cosa stavo dicendo!”
“Mmm…”
(…)
Ora che sono sposata e che viviamo sotto lo stesso tetto non è che la situazione sia tanto cambiata, a dire il vero.
Parlo da sola in macchina, soprattutto quando sbaglio strada nonostante (o a causa) del navigatore. Me ne dico (e urlo) dietro di tutti i colori, quando al secondo o terzo passaggio dalla stessa maledetta rotonda ancora non ho capito bene dove diavolo debba andare.
Parlo.
Non sempre e solo da sola; parlo in generale. Anzi, anche se parlare con me stessa mi piace parecchio, direi che preferisco di gran lunga farlo anche con gli altri.
Parlerei con i sassi, quando sono in vena.
Pensare che in prima elementare la maestra mi aveva descritta come “bambina preoccupante” perché eccessivamente timida e chiusa e molto silenziosa.
A casa rimasero alquanto scioccati leggendo questa nota, perché tra le mura domestiche ero una “mitraglietta”, frastornavo i timpani a tutti.
Negli annali di famiglia è rimasto il ricordo di un viaggio con papà in compagnia del malcapitato Gattone, suo amico e collega.
Un tragitto lungo 600 km, da Milano a Pescara.
Potrò aver avuto 7 anni. Le cronache del tempo vogliono che abbia cominciato a parlare dal momento in cui papà ha avviato la macchina, per chiudere (forse) chiuso bocca quando, 600 k più tardi, l’ha spenta.
Di cosa parlavo? Boh! Sembrerebbe però che abbia avuto modo di dire di tutto, senza soluzione di continuità; anzi, ad un certo punto del percorso, quando evidentemente cose da dire non ne avevo forse più, piuttosto che stare zitta ho cominciato a leggere le targhe di ogni singola macchina che ci superava. Senza dimenticare quelle dietro di noi.
Io l’episodio lo ricordo vagamente; molto meglio lo ricorda papà; “meglissimo”, purtroppo per lui, sembra lo ricordi il Malcapitato e Traumatizzato Gattone.
Insomma, parlo, parlo, parlo.
E se non parlo, c’è da preoccuparsi, perché in genere vuol dire che non sono in forma, che qualcosa mi cruccia, che sono preoccupata. O molto affranta.
O che sto dormendo: incredibilmente, nel sonno non proferisco parola.
La quiete dopo la tempesta.
You kill me with silence
that’s your style, girl
You’re letting me know
this deafening silence
The only reason that you’re in control
you’re in controlIt’s emotional violence,
I can’t breathe now,
but I can’t let go
You kill me with silence
(“You kill me with silence” – Duran Duran)
NO COMMENTS