Ho fatto un rapido calcolo e occhio e croce oggi dovrebbe essere il diecimillesimo giorno (minuto più, minuto meno) della mia vita da pendolare.

È da trentatre anni, fatto salve alcune interruzioni di percorso, che la mia vita si muove sui binari di un treno quasi sempre in ritardo.

Da un rigido gennaio 1985 per l’esattezza, da quando cioè da Milano Città Studi, i parents (cosa gli sarà saltato in mente chi lo sa) ci hanno catapultato a vivere nella Terra di Mezzo, San Zenone al Lambro; ai confini estremi della provincia di Milano a sud, ai confini più settentrionali della provincia di Lodi. Proprio in mezzo. In mezzo… al nulla.

Allora mi era sembrato un incubo tutto. Oggi (forse) è un po’ meglio; se non altro è arrivata la “metropolitana di superficie” che secondo i pettegolezzi dell’epoca, quando i miei acquistarono casa ad inizio anni 80, sarebbe dovuta arrivare praticamente nel giro di qualche mese. 180, per la precisione. La famigerata è arrivata più o meno a metà 2010 con percorso diretto, oggi si chiama passante, ovvero quando io mi sono trasferita a vivere esattamente dall’altra parte della linea Lodi -Saronno, a Bollate. Una diagonale perfetta.

È dal 1985 che ogni giorno affronto viaggi in stile “carro bestiame“.

Fatte salvo rare eccezioni, ogni mattina e ogni sera è una lotta. All’ultimo posto libero, all’unico centimetro d’aria. Da San Zenone a Bollate non è cambiato nulla. Oggi i convogli sono un attimo più moderni, ma per il resto poco è migliorato. Treni che all’orario di punta contano 2 carrozze in meno e che nelle ore deserte sono lunghi 20 metri.

Aria condizionata a palla in estate, roba da sincope, o al contrario spenta per soffocare meglio. Riscaldamento a 500 gradi di inverno o al contrario gelo barbino.

Treni mai in orario quando lo devono essere, puntuali come svizzeri e quasi in anticipo quella volta che ti servirebbe fossero in ritardo. Corse da finalista dei 100 metri e poi arrivi al binario e il treno è soppresso.

Trentatre anni di scioperi indetti quasi sempre al venerdì con le motivazioni più disparate, alla rincorsa delle fasce protette (?) sempre disattese.

Diecimila giorni circa di ascolto (in)volontario di conversazioni dei vicini di viaggio. Voci stridule che viaggiano a 1999 decibel alla mattina presto. Anche adesso, che sono le 8.06 circa di un venerdì di inizio aprile, le petulanti signore che mi viaggiano più o meno accanto si ritrovano in gruppo come ogni mattina e si parlano a distanza non ravvicinata.

Uelah, ciao! Da dove arrivi?” chiede una, quella che di solito non si siede mai, all’amica che è salita qualche fermata prima. “Da casa mia, da dove vuoi che arrivi?” In effetti, data l’ora, non fa una grinza. Difficile che prima sia andata a fare shopping.

Ora anche quella che non si siede mai si è seduta. Le fa male il ginocchio, confessa a bassa voce all’amica vicina. L’altra risponde urlando “Ehhhh, la vecchiaia, che ti credi?!?” E giù a disquisire di dolori. E il ginocchio e la spalle e le braccia. Tutto un dolore. Li fanno venire anche a me, si rimane contagiati.

Prima leggevo di più. In generale, ma soprattutto sul treno. Ma ultimamente non ce la faccio. Impossibile concentrarsi. Ci provo, ma mi distraggo facilmente. Un po’ sono anche curiosa. Di alcuni gruppetti di amici seguo le vicende a puntate, giorno dopo giorno.

Anni di formazione sulla natura umana direttamente sul campo. Voci squillanti o cavernose, cadenze disparate, suonerie del cellulare per non udenti, profumi, più spesso odori pungenti, incrociando gli stessi volti giorno dopo giorno.

Alcuni sono diventati i miei punti di riferimento. Non so chi siano, ma il solo vederli mi rassicura di aver preso il treno giusto, soprattutto quando sono di corsa e salto sul primo vagone che passa buttandomi a pesce. Fantozzi in confronto era un dilettante.

Altri volti mi smuovono il nervoso solo a vederli.

Poveracci, non mi hanno fatto nulla. Non ci ho mai parlato, ma è più forte di me. D’altra parte, immagino bene che anch’io a più di qualcuno  possa fare lo stesso effetto. C’è per esempio una “ragazza” che vedo tutte le sere. Si chiama come me, ho scoperto. Ha dei piedi lunghi e sproporzionati all’altezza (bassezza) e piatti. Quando la incrocio mi verrebbe voglia di tirarle una pedata nel sedere. Ma mica per farle male, eh, solo per scaricare il nervoso. Perché? Cosa mi avrà mai fatto? Nulla di nulla. Manco saprà che esisto. Ma a me fa quell’effetto lì. A volte sento il rimorso, mi sento cattiva, io che non amo per nulla la violenza. Ma questa qui, oh, che ci posso fare, mi smuove l’istinto alla pedata (non è l’unica, a dire il vero…).

Ecco, è arrivata la mia fermata, Porta Garibaldi.

Per arrivare in superficie dal livello -3 ogni mattina risaliamo la corrente come salmoni nella galleria del vento, passando davanti alle solite scritte che imbrattano le pareti della stazione, anche quelle appena rimesse a nuovo, soprattutto quelle. Metri e metri di “Suca” e descrizioni piuttosto dettagliate sulle abitudini e promiscuità sessuali di tale “Giorgia”.

Passo davanti al binario 18 proprio mentre dalle scale si riversa come un fiume in piena tutto il carico del treno appena arrivato da Bergamo. È una lotta per non essere risucchiati, basta un attimo di distrazione e ti ritrovi di nuovo giù, al piano -3 e devi ricominciare da capo.

Ecco il tunnel, in fondo intravedo la luce. Ancora pochi metri.

Per fortuna è venerdì. Per un paio di giorni potrò dimenticarmi di Trenord.

Altri 100 passi, 40 scalini in salita.

Riemergo.

Sono in superficie.

Respiro l’aria, è la primavera.

 

Swimming with the rat race
Or running against the tide
It’s everybody’s business when there’s nowhere to hide
Searchlight the crowd, I’m fixed onto you
There’s a way out of this into the blue
Something is happening to me
Maybe it’s happening to you, you, you, you
Everybody everywhere, feel it in the air
Oh yeah (oh yeah), it’s time to take the pressure off
Everybody everywhere, step out into the future
It’s time to take the pressure off
(Pressure off – Duran Duran)