Avevo scritto e pubblicato questo post la prima volta il 22 febbraio 2019.

A distanza di più di un anno lo ripropongo perché alla lista delle parole che non ho (quasi mai) detto (vedi sotto)  se ne sono nel frattempo aggiunte altre due o tre che mi rendono la vita difficile. Quindi questo è un aggiornamento.

Cosa avevo scritto il 23 febbraio

“Accattivante”, “ditta“, “problematica”, “talenti“, “ti spiego” e, last but not least, “eventually” utilizzato all’italiana: sono le parole che (mi) fanno male; parole che non ho (quasi mai) detto e che mai (più) dirò.

Accattivante“. Utilizzato in tutti gli ambiti lavorativi e non, ma soprattutto da chi lavora in comunicazione, è un aggettivo che si legge e si sente ogni due per tre. Anche ogni 3×2.
A me fa salire la cattiveria: lo trovo insopportabile e spesso utilizzato a vanvera, per riempirsi la bocca e darsi un tono un po’ creativo e beffardo, quasi alla Fonzie (“Ehi ehi ehi, guarda come sono accattivante, eh eh…“), quando altro non si sa dire.
Tutto è accattivante: la grafica del nuovo sito internet è accattivante, la pagina pubblicitaria è accattivante, l’immagine, il post, il blog. Tutto. Tutto. Tutto!!!
Ecco, per me accattivante – e già il suono mi fa venire il nervoso – è indisponente, malizioso, vuoto.
Ogni tanto sono costretta anch’io a usare ‘sto maledetto aggettivo, circondata da persone che masticano di immagine.  Mi guardo dall’esterno mentre sto per pronunciarla e mi trovo antipatica da sola.

Ditta. Termine antiquato, in pure stile Fantozzi 1.0, quando in effetti le ditte erano ditte.
Oggi mi sembra démodé e stantio. Mi fa specie soprattutto che ad usarla siano persone giovani: saranno vecchie dentro. Ditta io non penso di averla mai usata.

Problematica” è un altro di quei bei paroloni riempi bocca.
Dona (si fa per dire) un’allure da intellettuale alle orecchie dell’ascoltatore.
In 99 casi su 100 in realtà la persona avrebbe fatto molto meglio a dire “problema” e via, ma siccome oramai va di moda “problematica”, via tutti a usarla.
Magari la problematica è se comprare un paio di scarpe in pelle o similpelle, o se andare al mare o in montagna: tutti temi che, in effetti, implicano delle riflessioni e delle complessità mica da ridere, su cui riflettere.

Talenti“. Chi bazzica un po’ su LinkedIN e/o siti di ricerca di personale lo avrà notato: cercano tutti “talenti“, dove “talenti” sta per “risorse umane”. O impiegati. O lavoratori. O operai. O dirigenti. Insomma, delle categorie ben precise, ma che sono tutti talenti, oggi.
Proprio recentemente ho avuto modo di partecipare ad un piccolo scambio di opinioni su LinkedIN, commentando un post che di questo tema parlava e da cui è poi nato un articolo: talenti vs Talento
La consolazione è che non sono l’unica a pensare che il talento sia qualcosa di ben diverso, portatore di un significato e un senso molto più elevati: “talento” per me indica una predisposizione particolare, quasi geniale, spesso persino non compresa.
Invece oggi sono tutti talenti, come se dire che si cercano impiegati o risorse umane fosse dispregiativo.
Ora, è vero come si legge spesso che ognuno di noi in fondo ha un talento, che io definirei più come predisposizione, ma da qui ad essere Talenti, ce ne passa.
Come scriveva una delle persone con cui ho avuto modo di confrontarmi, oggi si parla di talento molto, troppo.
“Le aziende lo cercano, ma non sanno spesso distinguerlo dal lavoro, dallo studio e dall’impegno.  Scambiano l’uno per l’altro“, affermava il mio interlocutore e io sono d’accordo: aziende e società di selezione abusano del termine, svuotando del suo vero significato una parola che in realtà è preziosa.

Ti spiego, che purtroppo ogni tanto scappa anche a me, è saccente, arrogante e presuppone che l’altro non abbia capito una bella mazza; il che spesso è vero, in effetti.

Infine, accidenti accidentaccio, c’è quel eventually” del benga, usato all’italiana, usato ad catzum.
Ricordo che alle medie, stavo appena cominciando a studiare inglese e all’epoca manco mi piaceva, un giorno pensando anche di fare una gran furbata, ho usato (osato) tradurre “of course” con un bel beffardo (oserei dire, accattivante)… “di corsa“.
L’occhiataccia e la strigliata della prof, tale Suor Antonietta, ancora la ricordo.
Ecco, a me sentire usare “eventually” con la stessa logica con cui io usavo “of course” fa venire il mal della pecola.

Aggiornamento del 19 giugno 2020 al post del 23 febbraio 2019

A distanza di più di un anno ho realizzato che ci sono altre locuzioni fastidiose: in generale – e rifacendomi all’eventually di cui sopra- non sopporto l’uso smodato degli inglesismi.
Ora, è vero che alcune espressioni in italiano non sono altrettanto “smart”, ma a volte forse si esagera. Così, durante un meeting o un webinar discuterà della challenge, dei task, del social distancingdell’engagement, “bookare”, “forwardare”.
Come in tutte le cose della vita, tranne nella mia passione per i Duran Duran (ma anche qui, sempre con misura) io non sono una fanatica e un’estremista. Per cui, non credo che sia realistico pensare di dover usare solo e soltanto parole italiane per tutto, ma è altrettanto vero che in certi contesti l’uso (e abuso e storpiatura) dell’inglese è davvero esagerato. Soprattutto considerando che non di rado noi italiani non sappiamo neanche ben usare la nostra, di lingua.

E poi, di grande attualità, “ai tempi del coronavirus“. Non è tanto il nome del virus in sé che mi dà fastidio, anche se come tutti lo detesto, bensì proprio la locuzione.
L’ho usata una sola volta proprio ad inizio epidemia, sentendomi una piccolissima Gabriel García Márquez al femminile, ma poi mai più. E menomale.
Tutto di questi tempi è “al tempo del Coronavirus: il lavoro (o la mancanza d’esso), l’amore, il turismo, la spiaggia, l’happy hour che guai se non lo fai, l’esame di maturità.
A proposito, leggevo che i ragazzi in questa edizione “straordinaria” non possono avere i genitori ad assistere. A me ha fatto più specie sapere che ci siano genitori moderni che vogliano andare a vedere la maturità. Forse ricordo male io, ma “ai mie tempi” (inizissimi anni ’90), i genitori proprio non si sarebbero sognati di presenziare all’orale. Va bene che è cambiato tutto: “ai miei tempi” i compiti li facevi (o facevi finta di farli) da solo già alle elementari. Adesso apprendo da fonti ufficiali e autorevoli che si studia con i genitori iper-presenti anche alle superiori. Bah.

Stavo per porre fine alla mia carrellata di parole che non ho detto, di parole che fanno male, ma proprio qualche ora fa per la strada ho incrociato due ragazzini che così, chissà perché chissà per come, hanno tirato giù un “bel porcone“.
Ecco, tra parole che non ho detto e che proprio non riesco a sopportare, c’è proprio lei, la bestemmia.
Non è questione di religione: non sono bigotta; sono cresciuta in una famiglia cattolica all’acqua di rose. Vado in chiesa una volta all’anno, se ci vado, e non mi fermo mai per l’intera funzione. Non prego da millenni, la chiesa (come istituzione) mi fa venire un po’ il nervoso e spesso i brividi, ma la bestemmia proprio non la sopporto.
La trovo un’espressione di inciviltà, indipendentemente da come la si pensi, e di grande maleducazione. Punto.
Mi fa specie su tutti, ma soprattutto sui ragazzini e sulle ragazzine.
Escono dal treno la mattina e alcuni, ovviamente non tutti, snocciolano un catalogo di santi e madonne in tutte le salse come se stessero facendo la lista della spesa, magari ridendo con gli amici.

Ecco, quelli lì li prenderei a calci dove non batte il sole, o sul “lato B”, come si dice ora e per usare una metafora,  quando in realtà l’unica espressione che ci starebbe bene sarebbe un bel semplice, diretto, calcio nel… culo, of course!

Grazie come sempre agli amici di Puzzle per aver l’illustrazione!

 

You kill me with silence
That’s your style, girl, you’re letting me know
This deafening silence, the only reason that you’re in control
You’re in control
It’s emotional violence, I can’t breathe now but I can’t let go
You kill me with silence

You kill me with silence – Duran Duran – 2015